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Una raccolta di racconti sull’esperienza della prigionia dei palestinesi nelle carceri israeliane. Un'opera che non mostra un’impronta unicamente politica, ma si concentra ampiamente sull’esperienza umana e i sentimenti che ne vengono suscitati. Si tratta di storie vere, tramandate all’interno del campo profughi di Dheìsheh a Betlemme, uno dei più grandi della Palestina/Cisgiordania, di cui è originario l’autore.
Una testimonianza che espone l’eterogeneità delle esperienze dei prigionieri, le diverse opinioni riguardo l’occupazione israeliana e il rapporto con il nemico-vicino e con la propria terra. Un libro che dà voce ai senza voce.
Uno scrittore che dà senso al suo essere lontano ma al contempo radicato alla sua terra.
Luisa Morgantini
"Ci sono diversi modi per esprimere il concetto di libertà. Per Khaled, libertà è poter chiudere la porta di casa da dentro, e non da fuori come è stata la sua vita in prigione per 15 anni, con un secondino a farlo sempre al posto suo. Per Said, libertà è un sorriso e un letto caldo, assenti nelle minuscole celle del carcere. Per Ishaq, invece, tornarci, in carcere, è libertà e follia allo stato puro, perchè lo fa per scelta, per non separarsi dal suo migliore amico Thair, piangendo una grassa risata mentre viene arrestato.
Nella loro diversità, le vite di Khaled, Said, Ishaq hanno in comune l'esperienza del carcere e la Palestina, nello specifico il campo profughi di Dheisheh, a Betlemme."
38 racconti brevissimi, poche pagine ciascuno, di rara intensità e poesia. Ci teniamo subito a precisarlo: dentro e oltre tutto il dolore, è un libro bellissimo.
Un racconto collettivo dal punto di vista dei prigionieri politici palestinesi, quando la lotta sembra un destino.
Aysar, come l’attivista afroamericano George Jackson, ci racconta cosa voglia dire non solo l’essere sotto occupazione, ma essere sottoposti al “sorvegliare e punire”, al fatto che qualsiasi famiglia in Palestina deve fare i conti con il carcere e i suoi effetti collaterali, come una tassa che grava, un debito che ogni famiglia palestinese deve pagare.
Le foglie di gelso si trasformano in veicolo prezioso per trasportare lettere di speranza e amore tra i prigionieri e i loro famigliari, altrimenti costretti a non sapere nulla dell'altro durante la detenzione che a volte dura decenni.
La letteratura, la cultura e la scrittura sono un mezzo per preservare l'identità palestinese.